Gente che cammina

Il topos caratterizzante un viaggio in Africa subsahariana è la gente che cammina. Ovunque.
5 minuti di lettura

Prof. Gabriele Costantino
Professore ordinario di Chimica Farmaceutica e Tossicologia

Il topos caratterizzante un viaggio in Africa subsahariana è la gente che cammina.

 

Ovunque.

 

Persone solitarie nel mezzo della savana, che ti chiedi da dove saltano fuori – e dove vanno, o brulichii densi di colori e voci nelle strade cittadine. La dimensione dell’Africa ti abbaglia dal finestrino dell’aereo, dalle ore sopra un panorama sempre uguale, ma si si misura veramente solo camminando (ma camminando molto).

Il viaggiatore che vuole (provare a) conoscere deve entrare in questa dimensione, superando in primis l’ostacolo mentale degli ‘abasungu’ (bianchi) che non camminano, figuriamoci. La prima cosa che ti si organizza, nel tuo viaggio in Africa, è una macchina e un autista, che si intende essere il tuo angelo custode. Bene, con cortesia, ma fermezza, se le condizioni di sicurezza lo permettono, rifiutatelo, perlomeno nel tempo libero.

La dimensione che si incontra nello spazio di una camminata è sufficiente ad avere un’idea dell’altro topos dell’Africa subsahariana, le diseguaglianze. Terribili.

 

Il primo impatto con la dimensione rurale e non turistica dell’Africa è shoccante, ed il viaggiatore umusungu – compreso chi sta scrivendo queste righe- cade immancabilmente nel tranello di chiamare bellezza la povertà.

 

Per questo, bisogna sempre tornare negli stessi posti almeno una seconda volta, scrollarsi di dosso colori, luci, e sorrisi, e farsi colpire dalle diseguaglianze e dalle ingiustizie.

 

Una camminata di poco più di due ore nel distretto di Musanze, nella provincia del Nord del Rwanda, sotto gli ibirunga (vulcani), consente di vedere le diseguaglianze ma non di capire come è possibile che esistano, così forti. A meno di 500 metri, si passa da una scuola primaria privata, dove i bambini fanno lezione in inglese, studiano il francese, sono vestiti in divisa, e rispondono, quando interrogati ed alzandosi in piedi, a domande di geografia, di storia, di scienze. Poi, si esce dal campus e camminando pochi minuti in salita, in mezzo a sassi e fango, si incontrano i primi villaggi del distretto. Il primo bambino che incontriamo è una vecchia conoscenza, conosce bene Chiara, non ha divisa, è abbastanza sporco ma egualmente educato. Parla kinyarwanda e esibisce con molto orgoglio le poche parole in inglese che ha appena imparato. Ha appena iniziato ad andare a scuola, grazie all’aiuto delle nostre studentesse. C’e’ un regalo per lui, una scatola di Memory, con cui giocare con fratelli e sorelle. Le figurine del Memory lo sbalordiscono. Non riconosce un gatto (lion!!! esclama), non riconosce l’elefante, sembra addirittura non riconosce la capra. Ma forse, è solo stupore e timidezza, e suoi occhi parlano una lingua diversa da quelli dei nostri figli.

Prende la sua scatola di Memory e se ne torna verso casa. Ci aspetterà sulla strada, al ritorno, deve portarci a salutare la mamma e i fratelli, nella sua nuova casa. Non è una bella casa -credetemi – e non so quanti di noi (io per primo) la chiamerebbero e la vivrebbero come casa. Ma è una nuova casa, per loro, quella precedente era molto peggio.

Continuando a salire, si familiarizza con un altro topos dell’Africa rurale.

 

Le donne che camminano, con le braccia al cielo. A sostenere il cielo, dice il proverbio africano.

 

A portar pomodori e travi di legno, più prosaicamente. Hanno un viso duro. Chi non lo avrebbe. Ma interpretare la mimica di culture ed esperienze diverse dalle nostre è sempre complicato. I pagne coloratissimi, neppure vestiti ma solo tessuti avvolti, sono un marker sociale. Quando le incontri, ti giri sempre ad osservarle da dietro, per veder spuntare la testa del bambino appeso alla schiena, fuori dal pagne. Di tanto in tanto, si voltano anche loro e si incontra lo sguardo: la giornata e’ dura, ma raccontare alle amiche invidiose di aver visto un umusungu con la mascherina potrà aiutare, la sera, a dimenticarsi che c’e’ poco da mangiare per cena.

Il brulichio sulla strada dei villaggi è finalizzato alla sussistenza, giorno per giorno. Il Rwanda, pur in crescita economica da oltre 15 anni, ha un reddito procapite di 700 dollari all’anno. Due dollari al giorno. In media. E questo torna in mente, subito, qualche mezz’ora e tre o quattro chilometri più tardi, quando nel caffè al centro della città ci si ferma per un ginger tea. I prezzi sono da Via Farini. E non ci sono turisti, né businessman. Una colazione per due costa circa 10 euro. La signora seduta davanti a me, non indossa pagne, ma vestiti occidentali,  ha scarpe molto simili a quelle di mia moglie, sta tutto il tempo a messaggiare sull’iPhone e paga il conto senza neppure leggerlo. Parla kinyarwanda come le donne del villaggio. Forse sono anche parenti. Chissà quanto contribuisce, lei, al reddito procapite.

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